Mi dovetti forzare,  a varcare la soglia. E comunque non ero pronto a vederlo.

Francone era lì, come uno degli ultimi di Benàres, con il viso di terracotta, trasformato nel becco di un uccello antropofago, in una creatura non già più terrena: un marabù rinsecchito.
Il naso, proteso, guardava  a congiungersi alla punta del mento, nella impietosa smorfia di Braccio di Ferro. Gli occhi gialli, pasta vitrea, dal soffitto si spostavano e incontravano i miei in movimenti simili a quelli di una impossibile glòttide.
Le gambe  da trampoliere, allungate sul letto, dipartivano da un pannolone avvolto al bacino come un perizoma da vecchio fachiro.
L’immobilità del corpo non lasciava trasparire che un impercettibile innalzamento della cassa del torace, che nel ritornare alla più consona posizione di mantice svuotato, presagiva l’abbandono dello stesso respiro. A ciascun breve, meccanico movimento automatico, se ne intuiva l’arresto essere sempre più prossimo.
Le mani, incrociate sul ventre inaspettatamente teso, e gonfio come se nascondesse all’interno un piccolo melone, quelle mani che avevano stretto con forza chiavi che avevano serrato bulloni, impugnato mazze e martelli, erano diventate un accrocchio di dita incastrate tra loro e intrecciate in un mudra  impossibile a sciogliersi, il mudra del cubo di rubik.
Il cranio stava assumendo una posizione all’indietro, allineata su un asse/colonna che aveva perso elasticità e si andava allungando e distendendo, irrigidito come il crudele spillone che trapassa il capo alle farfalle da collezione.
Forse nei vasi induriti ormai circolava sangue sempre più denso e caramellato, sempre meno fluido, sempre più nero e colloso; una velleitaria fleboclisi lo idratava. 
Un lavoro da tassodermista, quello della puttana morte, un maledetto lavoro condotto con osceno e indefesso zelo e sadica efficienza.  Non mi sarei stupito se visceri,  reni,  fegato e  cuore fossero stati posti con cura in cànopi ai piedi del letto, e il devisceramento  condotto dal vivo, allo scopo di strappare un ultimo grido di resa, un lamentoso sigillo…  
L’assalto di questa visione mi indusse il freddo, ma durò invero poco, e ancor meno  tempo  mi fu necessario per capire che non c’era niente da dirgli, che nulla sarebbe stato più di sollievo a Francone,  se non, forse, un abbraccio che l’orrore mi impediva.
 – Ci vediamo uno di questi giorni – gli dissi, sapendo che non sarei più ritornato, e anche temendo che ciò, in altre forme, svolazzanti e notturne,  mi sarebbe potuto comunque riaccadere in futuro.

Ma tu vola Francone, vola, ranàt dello Stige, ti sentirai  meglio nell’aria, tra note di blues e di jazz.